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Cinema

DONNE CHE VIAGGIANO SOLE
Un film di Giulio Pereno
DONNE CHE VIAGGIANO SOLE
Winner Best Indipendent Film at Benevento Film Festival BCT (Italy)
Written, edited and directed by Giulio Pereno
with Dariya Trubina
Original musics: Alfì Tommaso Massimiliano
and with Giulia D’Albenzio
Producted in Italy and Germany. Filmed in Italy, Germany (Berlin), England (Brighton), France (Paris),
Belgium (Bruxelles).

And with:
Anastasija Zaiceva, (Cech Repubblic)
Angela Schmidt, (USA)
Arianna Americo, (Italy)
Chloe Yau, (China)
Claudia Caldara, (Italy)
Digne Glatzel, (Germany)
Edith van Innis, (Belgium)
Emilie Thezvenoz, (Schweiz)
Isabella del Gaudio, (Italy)
Kate Lerigoleur, (France)
Jenny Terenzi, (San Marino)
Johanna Seven, (Germany)
Lara Bloch, (Irland)
Mariarosa Tasca, (Italy)
Miss Soli Tii, (UK)
Sya, (France)
Sophie Power, (Galles)

Credits:
Opening song from Paolo Gangeri
Song “Pane” written by Rares Gabriel Cirlan, played by Giulia D’Albenzio
Interviewers:
Marta Monteverde, Gaia Campesato – filmed by Giulio Pereno, Gaia Campesato
Train short clip: written by Gaia Campesato, created by Giulio Pereno
Cinematography: Jalal Albess
2nd Cinematography: Moreno Elia Hebling, Giulio Pereno, Claudio Pereno (final scene)
Sound design: Alfì Tommaso Massimiliano
Sound editing: Alfì – Pereno
Director Assistent: Gaia Campesato
Producted by Giulio Pereno – Barnaba Scalabrin
Title: Donne che viaggiano sole
English version: Women that travel alone
Language: Italian
Year: 2019
Size: 2:1, 16:9
DORMIAMO INSIEME

Diretto da Giulio Pereno
Italia, Francia / 125 min / 2023 /Poetico /Italiano
Sleeping Close (Dormiamo insieme), di Giulio Pereno, è un ambizioso percorso di formazione che mescola alla perfezione realismo e simbolismo. Protagonista assoluta è la donna, o forse la femminilità stessa, intrisa delle sue paure, del suo profondo senso di libertà, della sua tendenza al ripensamento del proprio ruolo, ma anche della sua naturale vocazione alla maternità, dunque sospesa fra continuità e rottura, che attraversa le sue tappe evolutive specchiandosi in quattordici ipotetiche proiezioni dell’identità femminile. Quattordici frammenti a comporre un’unica esistenza, un grande volto mutevole, contemporaneamente concluso ed in eterna formazione. Cosa vuol dire “essere donna”? Questa la domanda sottesa, antica e sempre attuale. Ne viene fuori una risposta che aveva già trovato nella letteratura d’ogni tempo numerosi sviluppi: se la dimensione del maschile appartiene di diritto al regno dei codici immutabili, delle leggi improrogabili, delle forme congelate nel potere simbolico della parola, delle identità cristallizzate da una visione demagogica ed assolutizzante del mondo naturale, il femminile appartiene ad una realtà ondulante e sospesa fra equilibrio e rivoluzione. In altre parole, il femminile è la natura stessa, impossibile da catturare e razionalizzare appieno. Ed è questo il grande merito di Sleeping close: in questa zona di riflessione e di rispecchiamento della naturalità femminile non ci può essere spazio per l’uomo. La sua presenza, appena accennata, brancola e deambula ai margini delle inquadrature. Incerta, fragile, ai limiti dell’impotenza. La stessa fotografia, livida, in chiaroscuro, giocata sulla profondità delle ombre, abbraccia appieno quest’identità in continua trasformazione, lasciata libera di evolversi, oltre il bene ed il male comune, in un caleidoscopio di ipotesi identitarie. La donna è, per sua natura, una, nessuna e centomila. È la massima espressione dell’idea della metamorfosi. È l’essere metamorfico per eccellenza. Volto che si frantuma e si ricompone allo specchio, opposto alla maschera rigida che spesso il maschio si costringe ad indossare. Ed in effetti il film sembra voler immergere lo spettatore in una galleria di specchi, con la macchina da presa che non la attraversa mai freneticamente, mettendo i personaggi in conflitto, ma scivola silenziosa o osserva tutto a debita distanza, in campi medi che rasentano la solennità dell’immagine pittorica, simbolica e paradigmatica. Questa solennità è la cifra stilistica di un film visionario che va dunque letto in profondità, negli elementi che compongono i suoi quadri fissi, un po’ come nel cinema classico giapponese. Un racconto di formazione psichica che non si preoccupa di narrare una storia, ma di mostrare una riflessione che di fatto è tutta interiore, e che viene espressa benissimo dalla voce narrante, dall’alternanza fra il buio e la luce, fra interni disadorni ed esterni paesaggistici fortemente caratterizzati, con la chiara assonanza fra donna e natura a cui prima si accennava. La morte simbolica, e diremmo poetica, con cui si conclude il film, è al contempo resurrezione universale della figura femminile, con tutti i suoi volti alternativi che si porterà sempre dietro. In un’epoca come quella che stiamo vivendo, in cui la donna non sembra ancora riuscire a trovare, forse anche per una sua vocazione naturale, un’identità stabile e socialmente catturabile, in cui purtroppo è spesso ancora vittima di uomini che non riusciranno mai diventare umani, un film come questo appare necessario, come necessario appare il ricorso alla poesia, oramai quasi del tutto assente nella produzione cinematografica italiana.
 
 
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