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HATHOR

Gianfranco Pereno
HATHOR
Dalle oscure origini di Torino, agli  inesplorati sotterranei di uno dei più importanti musei  di Antichità Egizie esistenti al mondo. Nelle viscere di una città tra le più misteriose d’Europa, il Male serpeggia malvagio, pronto a uccidere e a divorare. Un noir senza respiro, dove la paura è  un’arma mortale.
Torino, marzo 1568
   La pioggia cadeva incessantemente ormai da tre giorni, ma il generale Nicolis di Robilant, esperto di difese sotterranee e comandante dei duemila uomini impegnati nella costruzione della Cittadella, non aveva minimamente ridotto i turni di lavoro.
Il progetto dell’architetto Francesco Paciotto era geniale, ma richiedeva un giornaliero controllo dei lavori, poiché già quelli del mattino si reggevano su quelli realizzati il giorno precedente ed il minimo errore poteva compromettere interi settori della modernissima fortificazione.
Matteo si sistemò meglio sulla testa il sacco cerato che avrebbe dovuto proteggerlo dalla pioggia battente, poi appoggiò con decisione la pesante scarpa militare sulla vanga e spinse con tutta la forza che gli rimaneva.
Erano sei ore che scavava in quelle che erano rimaste ormai solo le tracce delle fondamenta della chiesa di Santo Stefano e aveva le reni a pezzi, ma almeno non gli era toccato l’assegnazione al servizio addetto a portare il materiale di risulta sino alla fortificazione del bastione centrale.
In camerata aveva visto le schiene piagate degli uomini che avevano quell’incarico e sperava con tutto il cuore che a nessuno in fureria venisse in mente di inserirlo in quel turno.
La vanga trovò resistenza e Matteo bestemmiò sottovoce.
Nonostante che del vecchio luogo sacro non esistesse più nulla, non gli andava di esagerare nel tirare in ballo il nome di Dio in mezzo al fango dello scavo.
Il problema era che da due giorni avevano raggiunto quelle che dovevano essere state le basi di qualcosa di molto più vecchio delle fondamenta medioevali della chiesa e assieme ai suoi compagni aveva faticato come una bestia per spostare gli enormi lastroni di pietra che avevano costituito la pavimentazione di chissà quale edificio.
Sperava ardentemente che non ce ne fossero più, ma la vibrazione che si era trasferita dal manico della vanga al suo braccio stanco non gli lasciava alcun dubbio.
Con rassegnazione s’inginocchiò nel fango cercando di individuare con la punta delle dita i contorni della lastra di pietra.
Mezz’ora dopo cinque uomini fissavano disorientati quella che sembrava essere una piccola tomba.
Un unico blocco di pietra scalpellato a mano, lungo circa un metro e mezzo per sessanta centimetri di larghezza e altrettanti d’altezza, era sigillato da una pesante lastra di pietra su cui vi erano incisi simboli sconosciuti.
<<Chiamiamo il capoposto?>>
<<Meglio!>>
<<Aspettate! E se dentro c’è qualcosa di prezioso?>>
<<Forse sono le ossa di Santo Stefano!>>
Mormorò preoccupato Matteo, <<la chiesa non era dedicata a lui?>>
<<Non mi sembrano simboli cristiani questi!>>
L’affermazione arrivò dall’unico del gruppetto che bazzicava il prete del reggimento e tutti gli diedero immediatamente ragione.
Matteo sentì qualcosa strisciargli lungo la schiena, molto più freddo della pioggia che gli inzuppava la divisa sporca e con un balzo uscì fuori dalla buca che avevano scavato.
<<Io vado a chiamare il capoposto!>>
<<Aspetta!! Io l’apro!>>
E senza attendere la sua risposta, uno degli uomini alzò alto il piccone al cielo e lasciò cadere un colpo robusto sul coperchio di pietra.
Il rumore che la lastra fece nel frantumarsi, sembrò quello di un fulmine che schianta di netto un albero secolare e Matteo ebbe la netta sensazione di vedere un rapido guizzo di luce all’interno del sarcofago di pietra.
I quattro uomini rimasti nella buca, si erano intanto piegati per guardare cosa si celasse in quello strano scrigno, buttando indifferenti i frammenti del coperchio nel fango ai loro piedi.
Matteo vide una strana nuvola verde avvolgere per un attimo la testa dei suoi compagni, poi urla agghiaccianti lo fecero indietreggiare spaventato.
Con gli occhi che sembravano voler schizzare fuori dalle orbite, i quattro uomini tentarono di uscire dalla buca, ma dopo alcuni rapidi spasimi caddero a terra senza vita.
Sconvolto, il soldato inciampò nei propri piedi e scivolò nel fango, finendo a pochi centimetri dal cadavere di uno dei commilitoni, ancora aggrappato con una mano a una radice che spuntava dall’orlo della buca.
La smorfia di terrore impressa sul volto del morto, rivoltò lo stomaco di Matteo, che carponi fuggì via imbrattato di lacrime, fango e vomito.
Nascosto nell’ombra di un portone di un grande palazzo poco lontano, una figura avvolta in un pesante mantello scuro osservò il soldato allontanarsi e con un senso di sollievo ripose lo stiletto nel fodero.
Non voleva far del male a nessuno, ma non avrebbe mai potuto permettere che si scoprisse cosa c’era dentro il sarcofago.
Da quando i soldati avevano iniziato a scavare tra le fondamenta della chiesa, non li aveva persi di vista un solo attimo, il suo compito era quello di vigilare e proteggere, come lo era stato per suo padre e del padre del padre da intere generazioni.
Un compito sacro cui avrebbe adempiuto a costo della sua stessa vita.
Con la rapidità di un animale selvatico attraversò lo spiazzo degli scavi e con altrettanta agilità saltò nella buca.
Ignorando completamente i cadaveri, si sporse a raccogliere, con un gesto carico di estrema religiosità, un grosso involucro biancastro; poi avvertendo delle voci avvicinarsi, fuggì via a sua volta, silenzioso com’era arrivato.
Il generale Robilant fissava la buca preoccupato.
In quello scavo da due giorni i lavori erano fermi e la cosa era francamente inconcepibile.
Quattro uomini morti e uno che sembrava uscito di senno, per quello che doveva essere stato solamente un banale furto, non era certo per lui un fatto così importante da giustificare il blocco di un cantiere, che tra l’altro forniva un ottimo materiale di risulta per riempire le mura appena edificate della Cittadella.
In quegli anni, già frammenti di statue romane, colonne e parti di vecchi palazzi erano stati utilizzati per irrobustire quella che doveva diventare una delle più importanti opere di difesa costruite nell’ultimo decennio, e quella vecchia chiesa aveva fornito più di quanto si era aspettato.
Evidentemente, quand’era affiorata quell’antica tomba, l’ingordigia degli scavatori aveva scatenato quel piccolo massacro, forse solo per rubare qualche monile o qualche antica moneta d’oro; senza dubbio un piccolo tesoro per un soldato squattrinato, ma un grosso danno per il calendario dei lavori, già minacciato dal brutto tempo che li perseguitava ormai da mesi.
Quello che non riusciva a comprendere, era il fatto che addirittura “Testa di Ferro”, il duca Emanuele Filiberto in persona, gli avesse ordinato di far piantonare quello scavo, comandando di arrestare senza indugio chiunque vi si avvicinasse.
Il generale non poteva sapere che, in quello stesso momento, il duca Emanuele Filiberto era nel suo studio privato, in compagnia dell’architetto Paciotto, intento a fissare i frammenti riuniti della lastra che aveva ricoperto la piccola tomba, ma soprattutto la decina di oggetti, ben allineati, che erano stati recuperati all’interno del sarcofago di pietra.
<<E allora?>>
Nel tono di “Testa di Ferro” risuonò inconfondibile l’abitudine al comando, ma ugualmente una sfumatura di eccitazione tradì la sua curiosità repressa.
<<Non posso esserne sicuro… avrei bisogno di fare ulteriori indagini,>> disse la voce di un terzo uomo che stava esaminando con palese incredulità uno dei reperti, <<ma se con certezza posso già asserire che ci troviamo di fronte ad autentici manufatti egizi, posso solo ipotizzare che possano riguardare una vera tomba.>>
Poi, sotto lo sguardo severo del duca, si strinse nelle spalle.
<<Io suggerirei di far valutare tutto da un vero esperto, perché, se le mie supposizioni trovassero conferma, la scoperta potrebbe essere incredibile. Tutti questi reperti sembrano condurre a un solo nome: alla dea ISIDE!>>
A poche centinaia di metri da loro, in un sotterraneo surriscaldato da grossi bracieri, un uomo elegantemente vestito è davanti a un altare di pietra, inginocchiato da ore di fronte al tesoro che due giorni prima era riuscito miracolosamente a salvare; quattro grossi vasi sigillati da inquietanti coperchi.
Lo strano personaggio ha un brivido, poi solleva gli occhi verso una testa umana dipinta con colori brillanti, affiancata dalle teste severe di un babbuino, di un falco e di uno sciacallo.
Attorno ai quattro vasi, le statuette raffiguranti le dee Nephtys, Neith e Selkis stendono la loro aura di protezione.
Manca quella di Iside, ma non ha importanza, il potere della madre di Horus già palpita potente dentro i quattro vasi canopi.
2
Le vele che sbattono al vento con schiocchi secchi e le onde che si schiantano con furia sui sessanta scafi delle navi tirate in secco sulla lunga spiaggia, consiglierebbero di attendere i giorni seguenti per prendere il mare.
Ma la donna che studia immobile le bianche creste delle onde, che si rincorrono rabbiose davanti ai suoi occhi, non ha dubbi, il Male che li insegue è terribilmente potente e loro non possono permettersi d’essere raggiunti.
Socchiudendo gli occhi tenta di immaginare come sarà il mare al largo, e a quanto gonfie appariranno le onde a lei e ai suoi uomini, abituati da sempre alle calme acque del Nilo.
Un braccio le circonda la vita e la donna si abbandona all’abbraccio che la stringe premuroso.
<<Eridano, ho paura!>>
<<Non temere, abbiamo fatto la scelta giusta!>>
La donna lascia scorrere lo sguardo sugli scafi brulicanti di uomini indaffarati, poi si sofferma sulle tende scosse dal vento dove hanno trovato riparo le donne e i bambini.
Sono un popolo in fuga e il suo compito è quello di guidarli e proteggerli.
<<Non abbiamo fatto la scelta giusta, abbiamo seguito l’unica via percorribile!>>
Poi si stacca dall’uomo per scrutare il cielo alle sue spalle.
Il Male stava arrivando!
<<Dai l’ordine!>>
E mentre il principe s’allontana curvo sotto le raffiche del vento, si lascia cadere sulle ginocchia, estraniandosi dal mondo in una silenziosissima preghiera.
Aggrappata a una sartia, per non essere sbalzata in acqua dal rollio spaventoso dell’imbarcazione, Hathor fissa la spiaggia ormai lontana, brulicante di quelle che appaiono miriadi di nere formiche; ma le onde d’urto dell’odio che le arrivano distintamente addosso, sono migliaia di volte più potenti dei marosi che si schiantano sul legno della sua nave, l’ultima della flotta dei fuggiaschi.
Mentre Eridano guida la nave di testa verso il loro nuovo destino, lei è rimasta sull’ultimo scafo, ad estrema protezione dal terribile potere emanato dall’uomo in piedi sul carro da guerra che, con le ruote affondate nella sabbia bagnata, fatica a trattenere i cavalli che scalpitano agli spruzzi salmastri che bruciano loro gli occhi.
Sul suo petto, il simbolo dell’animale di Seth emana una luce spettrale, mentre dai suoi occhi un odio glaciale sembra voler congelare le acque turbolente che ha di fronte, in modo da permettere a lui e alle sue orde di raggiungere e massacrare le prede che gli stanno sfuggendo dalle dita.
<<Fuggi! Cagna! Ho comunque l’eternità davanti per raggiungerti e ucciderti!>>
Le parole filtrano appena dalle labbra contratte dell’uomo, ma quando si schiantano contro l’albero maestro della nave di Hathor, l’immane scricchiolio che ne consegue fa gelare il sangue nelle vene a tutto l’equipaggio.
Poi la spiaggia finalmente scompare e con essa anche il male che la calpesta, e Hathor può volgere lo sguardo verso la flotta che la precede.
Un inatteso senso di pace l’invade completamente e il vento e il mare si trasformano in un attimo da oscuri nemici ad amici fedeli, la cui forza sente scorrere rapida nelle vene.
Un urlo esce dalla sua gola, facendo voltare verso di lei teste preoccupate, ma il suo volto sorridente è contagioso e in breve tempo su tutta la nave si ulula al vento la voglia selvaggia di vivere.
Un grido di speranza che finisce per coinvolgere l’intera flotta, spingendola con coraggio lungo coste boscose di terre lontane e sconosciute.
Nonostante questo, quando mesi dopo Eridano da l’ordine di riparare in un porticciolo naturale, facendo poi sbarcare l’intero suo popolo, a tutti quanti quel nuovo mondo fa paura.
Stretti tra alte montagne e un mare che continua a essere a loro incomprensibile, così diverso dalle immense distese di sabbia dell’Egitto, i fuggiaschi si sentono sopraffatti dall’ignoto e cercano negli occhi dei loro capi una sicurezza impossibile.
Ma se Hathor, la loro signora, ha deciso che la loro fuga deve terminare, quel mondo pieno d’acqua e di vegetazione sarà la loro nuova patria.
Quello che non sanno, e che l’uomo che porta il marchio dell’animale di Seth, si è a sua volta imbarcato e come un segugio è sulle loro tracce, lento ma implacabile.
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